Il termine “femminicidio”, entrato nell’uso comune e giornalistico da qualche anno, deve le sue origini al meno noto termine femmicidio, introdotto per la prima volta dalla criminologa Diana H. Russell in un articolo del 1992 per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini per il fatto di essere donne.
In molti hanno già argomentato a favore della necessità di tale neologismo ed è sufficiente la definizione del dizionario Devoto-Oli per chiarire che non si tratta di una cosa fatta tanto per fare: con femminicidio si intende non solo l’uccisione di una donna, ma “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Ogni femminicidio va analizzato prendendo in considerazione il contesto relazionale e socio-culturale in cui si trova la vittima: rappresenta l’omicidio di una donna in quanto tale, compiuto da persone a lei vicine, perché “sfuggita al loro controllo”. Si colloca, quindi, in una cultura che considera la donna come qualcosa da possedere e da controllare.
Le differenze
La parola femminicidio non ha solo il compito di designare un fenomeno, ma anche di diffondere una maggiore consapevolezza del problema, spingendo verso una sua progressiva eradicazione. Ciononostante ci sono giornali che si sono spesi reclamando come contraltare al termine femminicidio l’inserimento nel vocabolario della parola maschicidio.
Tuttavia mettere sullo stesso piano due generi di violenza come se la loro natura, e soprattutto la loro origine, fosse identica, ha il solo scopo di togliere l’importanza ai femminicidi e porta allo sfruttamento della gravità della violenza sugli uomini (che esiste).
Gli uomini non vengono uccisi perché vittime di un sistema socioculturale che li soggioga e annienta la loro identità; ciò non significa che anche loro possano essere vittime di violenza, ma utilizzare il termine maschicidio per descrivere questo tipo di violenza non ha senso.
La violenza sugli uomini esiste
Lo sappiamo, gli uomini possono essere vittime di violenza da parte di donne: ci sono tantissimi uomini che hanno subito, e che subiscono, vessazioni, molestie e abusi. La differenza sostanziale però la fanno i numeri: tali forme di violenza il più delle volte non vengono denunciate- alcuni non ne parlano nemmeno- per orgoglio, per paura di non essere presi sul serio, per vergogna, perché a loro volta vittime di una società patriarcale in cui l’uomo medio è portato a non esternare i propri problemi e a mantenere un’apparenza di stoicismo. La scarsa volontà di denunciare fa sì che il problema rimanga nascosto, pertanto gli studi in merito sono pochissimi e non è facile trovare soluzioni.
Quanti uomini denunciano
La sovrastruttura patriarcale innesca un meccanismo in cui più l’uomo è restio a denunciare, più la società si disinteressa del problema. Una prima forma di aiuto è nata nel 2013 con Ankyra, un’associazione che si occupa di fornire supporto a mariti, fidanzati, ex compagni, padri che subiscono soprusi di ogni genere. Occore pertanto uno sforzo collettivo per far sì che vengano portate alla luce le varie violenze che gli uomini subiscono, senza però marginare i soprusi a cui sono soggette le donne.
Un unico obiettivo
La lotta contro la violenza maschile e quella contro la violenza femminile non sono in competizione; le due parti dovrebbero cooperare con l’obiettivo di eradicare tali crimini e non renderla una gara a chi soffe di più.
Parlare di una non nega l’altra, ma è riduttivo agglomerarle in quanto hanno peculiarità che necessitano approcci differenti. Ultimamente molti uomini accusano i movimenti femministi di interessarsi solo alla violenza contro le donne negando l’esistenza di quella contro gli uomini. La realtà, però, è ben diversa: è ovvio che le donne agiscano sulla base di quello che conoscono e che le riguarda, ciò non toglie che anche gli uomini possano cominciare ad attivarsi per combattere le proprie battaglie.
Ma allora perché?
Appurato che anche gli uomini sono soggetti a violenze come le donne, perché esiste solo il termine femminicidio? La peculiarità di questa parola è data dalla matrice del crimine, non dalla vittima: essa fa, infatti, riferimento ad una serie di comportamenti di natura misogina atti alla prevaricazione maschile e al possesso della donna, vista come un oggetto. Riferirsi all’uccisione di una donna in quanto tale con il termine omicidio annulla anni di battaglie femministe atte a dimostrare il sessismo strutturale e patriarcale presente nella nostra società. La parola femminicidio non è nata per privilegiare le donne, ma perché esse sono da secoli vittime di un fenomeno preciso talmente diffuso che necessita un termine esclusivo.